Forse ci troviamo alle soglie di quella “morte dell’arte” che già Hegel aveva profetizzato, argomento poi ripreso da Giulio Carlo Argan in tempi a noi più recenti. In realtà, se c’è qualcosa che sta agonizzando in maniera apparentemente irreversibile, questa non sembra essere l’arte in sé e per sé, ma piuttosto quella sua particolare manifestazione che viene chiamata “avanguardia”. C’è stata, è vero, l’avanguardia storica, quella che ha combattuto la tradizione dell’”accademia”, quella che ha inteso cambiare radicalmente il modo di concepire l’arte attraverso una serie continua di nuove proposte. Tutto, in qualche modo, ha funzionato fino a quando non si è inventato per il puro gusto di inventare, come se il nuovo fosse per definizione sempre meglio di quello che già esisteva.
Oggi che è stato inventato tutto e il contrario di tutto, all’avanguardia non è rimasto che imitare ciò che aveva già fatto in passato, mettendosi paradossalmente sullo stesso piano di quell’”accademia” dalla quale voleva distinguersi drasticamente. Oppure si cerca di
In che modo l’arte può tornare a essere “illusione”? In tanti modi indubbiamente, ma sempre con un solo obbiettivo: deve essere un’esigenza, individuale o collettiva, qualcosa che venga sentita come necessaria. Deve ristabilire un rapporto fisico ed emotivo con la vita, libero dalla freddezza di eccessivi condizionamenti intellettuali. C’è stato un periodo nell’arte del Novecento in cui ci si è sforzati di creare un rapporto di reciproca dipendenza fra arte e vita: il primitivismo. Da Gauguin in poi, il primitivismo ha cercato di recuperare quell’espressività primordiale che la civiltà moderna, stava rinnegando come se fosse stata un retaggio del passato. Dapprima gli artisti hanno cercato quest’espressività primordiale nelle tradizioni di popoli lontani ( i polinesiani, gli africani, gli etruschi, gli antichi ispanici), popolari (i bretoni) o in quelle del nostro Medioevo; poi, con Jean Dubuffet, ci si è accorti che esisteva anche un primitivismo “interiore” che si dimostrava perfettamente moderno senza riferimenti a cose passate o esotiche. È il primitivismo che con Dubuffet è stato chiamato art brut, o “brutalismo”. Si manifesta non in “tribù” particolari, ma in esseri non acculturati e in particolari condizioni psichiche. Non a caso Dubuffet ha preso coscienza del “brutalismo” a contatto con i malati di mente, accorgendosi di quali impressionanti capacità espressive, al di fuori delle abitudini dell’arte “colta” anche più spontanea e istintiva, fossero dotati. L’Art Brut di Dubuffet ha estremizzato il Primitivismo e proposto una dimensione nuova all’arte del Novecento, affascinante ma anche inquietante: bisogna dipingere come veri “selvaggi”, come se non avessimo mai visto nessun altra opera d’arte, come se nessuno ci avesse mai insegnato a dipingere. Bisogna rinunciare alla storia, dimenticare i musei, i grandi maestri, la riflessione che finisca per condizionare i nostri istinti. Solo così si può instaurare un legame diretto con il nostro inconscio, le sue ossessioni, il suo modo di rielaborare la realtà creando un universo inedito e a suo modo sconvolgente. Ma posto in questi termini, anche il brutalismo non riuscirebbe a superare la contraddizione che era tipica di tutto il Primitivismo: si tratta di una forma colta e intellettualizzata, tipica dell’arte d’avanguardia che “gioca” a non esserlo. Gauguin non era un primitivo, era un primitivista che “giocava” a fare il polinesiano per ragioni che rientrano in tendenze particolari della civiltà intellettuale più evoluta.
“disumanizzare” l’arte, eliminando da essa la motivazione espressiva e confondendola sempre più con la realtà vera e propria, attraverso l’impiego del ready-made o di mezzi riproduttivi come la fotografia, il cinema o la televisione. Un’ arte che sembra una “non arte”, insomma, sostenuta in maniera esclusiva dal concetto, dalla teoria, da una tesi di fondo senza la quale certo non si avrebbe alcuna giustificazione.
Ciò significa che il Primitivismo si è in effetti proposto di recuperare l’”espressività primordiale”, ma di non ripristinare le condizioni storiche, sociali e culturali che tale espressività hanno determinato. L’uomo moderno dell’occidente non poteva più essere un primitivo; poteva solo ispirarsi ad esso, ma niente di più. L’”espressività primordiale” era dunque un mito, il ricordo di uno stato dell’umanità che veniva immaginato “puro” e veniva mitizzato in contrapposizione alle degenerazioni della civiltà del progresso. E non a caso chi capisce il Primitivismo non capisce l’arte realmente primitiva, ritenuta “inferiore” e incapace di creare prodotti in grado di competere con la raffinatezza intellettuale dell’arte “colta”. Analogamente, dobbiamo distinguere fra “brutali” e “brutalisti”: i primi vivono la loro condizione come naturale, i secondi aspirano ad essa secondo motivazioni di carattere intellettuale. I primi si esprimono per quello che sono, i secondi rielaborano le loro espressioni in chiave “colta”.
In qualunque modo si valuti Mainetti, sarebbe difficile non considerarlo un “brutale” autentico. Mainetti dipinge in modo “selvaggio”, contro i dettati più elementari della “buona pittura”, contro una tradizione del mestiere artistico che ha raggiunto esiti mirabolanti. Lo fa senza nessuno spirito di provocazione, anche se si potrebbe pensare al contrario: Mainetti dipinge con spontaneità e in lui non c’è spazio per la provocazione o per altri divertissement intellettualistici. La sua arte ci ”fa paura” perché è allo stesso modo lontana e vicina a noi; lontana dalle nostre abitudini visive, come se si trattasse di qualcosa di antico che abbiamo represso per sempre; vicina perché quel represso antico è ancora dentro di noi, dentro le nostre anime. Mainetti è diverso da noi, vive in un altro mondo, ma in fondo la sua diversità ci appartiene almeno in parte, ce la portiamo dentro, ci accomuna tutti. Mainetti è l’altra faccia delle nostre anime, quella più segreta e sconosciuta, quella più allucinata e onirica. Ma siamo poi noi sicuri di essere nel giusto? A vedere le sue opere così inconsapevolmente poco preoccupate di rispettare le consuetudini, ci si chiede con una punta d’invidia se Mainetti non sia più libero di noi, magari più felice di noi. E già paventiamo il momento in cui anche Mainetti verrà “intellettualizzato”, come è capitato ad altri “brutali” (ricordate Ligabue?), ripulito da quanto possa
risultare criticato dal buon borghese che sia pratico di gallerie. Già ci spaventa il momento in cui Mainetti si preoccuperà di piacere, di rispondere a chi si attende da lui qualcosa. È davvero qualcosa di inevitabile, l’ennesima applicazione di una regola del più forte che domina i nostri tempi, o Mainetti avrà la forza di conservare la sua integrità spirituale, insopportabile e scabrosa?
Vittorio Sgarbi